
Intervista a Alessandro D’Alatri
La febbre è un film politico…
Il cinema non può più ispirarsi alla realtà a tutto tondo, che è compito della televisione. La politica nel cinema oggi è vista solo come un atto di accusa contro qualcosa, io preferisco essere propositivo a favore di qualcosa.
E’ impossibile non fare un cinema politico. Il problema è che la politica non si interessa più dei fatti veri della gente. Abbiamo assistito al crollo delle ideologie. Come diceva Paolo VI “E’ finita l’era dei maestri, inizia l’era dei testimoni”: tutti sono chiamati a raccogliere testimonianze.
La febbre è una critica della società italiana. Qual è l’aspetto che fa più rabbia a D’Alatri?
Fare cinema oggi significa tornare ad essere cittadini, sporcarsi le mani con la realtà. L’Italia ha una tradizione straordinaria in tutte le opere dell’ingegno, che, però, non vengono valorizzate. E’ una febbre, non una malattia, una specie di caduta delle difese. Bisogna riprendere il coraggio di dire così non va bene. Se fossimo più lungimiranti ascolteremmo i poeti e la società sarebbe migliore.
Com’è nata l’idea del cameo del Presidente della Repubblica?
Il Presidente della Repubblica è in qualche modo artefice del film: l’ho incontrato 3 anni fa al Quirinale per i David di Donatello, fece un discorso bellissimo sull’orgoglio del paese che mi colpì moltissimo.
La febbre parla anche dei sogni…
I sogni sono diventati più piccoli, però in nome dei sogni siamo ricattati. Passiamo il tempo pensando di realizzarli “dopo”, ma non c’è il “dopo”, c’è l’adesso. Viviamo un adesso stressato, vige la dittatura dell’ora, siamo travolti dall’oblio e c’è un senso di buio verso il futuro. Bisogna restituire dignità al lavoro, bisogna tentare di essere imprenditori di se stessi. Tutti facciamo un doppio lavoro, qualcosa che ci piace cui dedichiamo poco tempo e qualcosa che non ci piace ma che ci fa vivere. Allora perché non cercare di fare quello che ci piace?